lunedì 30 luglio 2007

omaggio a Bergman

Aveva annunciato che avrebbe smesso per sempre di fare cinema e - a differenza di molti che fanno e disfano - ha tenuto fede alla sua decisione: con il teatro però ha continuato per molti anni ancora.
Io ho avuto l'onore di vedere una sua regia teatrale , durante la prima e unica vacanza da sola della mia vita, una settimana a Edimburgo per il Fringe Festival.
Era "la signorina Julie", e un regista con la personalità e la fama di Bergman affrontava Strindberg con una fedeltà, una neutralità, una pulizia, e una tale mancanza di "ego" che - abituata alle regie italiote, tutte genio, intellettualità, barocca creatività, mancanza di rispetto per il testo, e passione per gli effettacci puttaneschi - mi lasciò letteralmente di stucco.

Tanto di cappello per Ingmar Bergman, di cui ho amato soprattutto "Sorrisi di una notte d'estate", "Sussurri e grida" e "Fanny e Alexander".

paure da spiaggia

Ora, non è perché penso che gli zingari siano vessati dal pregiudizio e tormentati da leggende superstiziose. Lo penso, in effetti, ma sospendiamo per un attimo il giudizio: qualcuno di quelli che stanno leggendo ha mai avuto a che fare con un bambino di tre o quattro anni?
Ecco, provi a pensare se è plausibile che qualcuno in una spiaggia affollata per rapire un pupo (financo un pupo pacioso, o addirittura tonto) lo adeschi in una spiaggia affollata di fine luglio, lo ficchi sotto una gonna e se la svigni alla chetichella.
Voi se voleste rapire un bambino usereste questo sistema?
A me pare evidente che deve trattarsi della solita cazzata figlia delle paranoie di idioti, ma repubblica invece non sembra avere neanche l'ombra di un dubbio.
La"banda", il "basista", "tentato rapimento".
E domani, quando - prevedibilmente - la zingara sarà giudicata innocente, ci sorbiremo le solite grida indignate dei bempensanti di destra.

mercoledì 25 luglio 2007

back in barcelona - prima parte: la catalanità

"Ai miei tempi era meglio" è una frase che evito di formulare persino nel privato di me medesima, e figuriamoci.
Ho visto attempate signore annaffiarsi i solchi vermigli e fumanti come vulcani appena eruttati sulla loro coccia incandescente e ferita al lamento di "il sole non è più quello di una volta".
Naturalmente lungi da me il minimizzare i pericoli del buco nell'ozono, ma resto dell'idea che un essere umano, e con lui la sua povera pelle, degeneri in tempi più rapidi del sole, financo del povero sole martoriato dalle bombolette deodoranti.

E così, in questi giorni a Barcellona, mi sono sorpresa più volte a dovermi ripetere che la rambla non era stata proditoriamente allungata dalla mia ultima permanenza in città, che le cozze non erano vecchie e che no, quel vinello non era fatto con le cartine.

Attraversare, dopo una visita al barrio gotico, le ramblas in lungo e in largo zavorrati di paella e tempranillo è qualcosa che a diciassette anni si fa con una certa nonchalance. A venti, come nel mio caso, già un po' meno.

Il punto è che una costante vigilanza sulle proprie distorsioni prospettiche e sul proprio considerarsi misura del mondo, non ripara purtroppo dall'inevitabile sorgere di una nuova categoria di errori.

E così ci ho messo un po' a capire che le sinapsi del mio sia pur polveroso spagnolo non erano affatto evaporate negli anni, ma che proprio in Catalogna una qualche genia di leghisti appena un po' più efficienti dei nostri nell'opera di abbarbicamento identitario suicida hanno preso il sopravvento, e lo spagnolo da quelle parti - semplicemente - non si parla più.

Non si tratta di un lieto e vivace omaggio alla tradizione dei padri, praticato nelle cucine delle famiglie e nei mercati, no. I loro cartelli parlano català, la loro radio parla català, la loro televisione parla català, e i bambini a scuola imparano tutte le sacrosante materie in català, e ovviamente studiano il català.
Allo spagnolo son riservate un paio d'ore alla settimana, e che si fotta, quel babbeo di Cervantes, quel che conta è coltivare e conservare la catalanità, fattore che consiste nell'avere più o meno lo stile di vita, di pensiero, di vestiario, di abitudini, rientranti nella gamma più o meno vasta praticata dal materiale umano di qualsiasi capitale europea, ma nel contempo parlare rigorosamente e solo cispadano, snobbando l'idioma che è secondo per diffusione in tutto il globo terracqueo. [continua]

domenica 15 luglio 2007

kabbalah, internet e il potere della parola

Stamattina a "Uomini e Profeti" su radio 3 se ne parlava. Kabbalah significa "trasmissione": la parola si muove, corre, esiste grazie a chi la pronuncia ma lo prescinde.
Per questo è ingenuo immaginare una virtualità di internet, grazie alla sua non carnalità: le parole vivono sempre, lontane da chi le possiede: su internet semplicemente corrono più veloci, e al tempo stesso rimangono: combinano cioè tanto le qualità della parola orale, quanto di quella scritta, e sono potenti.

mercoledì 11 luglio 2007

per precauzione

Mi è giunta voce che vanno di moda le foto di tardone online. Per precauzione, prima che qualcuno vada a ravanare tra vecchie foto malfatte sul web, pubblico anche la mia.

lunedì 9 luglio 2007

io sono, tu sei, egli è

Il caposaldo dell'antisionismo militante è la pretesa di definire che cosa sia un ebreo.
Naturalmente il primo passo dell'antisionismo è negare ogni identità ebraica che non sia strettamente legata all'ortodossia religiosa: negare l'esistenza degli ebrei come popolo significa negare la necessità e il senso stesso dello Stato di Israele.

La prima osservazione che mi viene da fare è che l'identità è un fatto soggettivo, e non solo per gli ebrei ma per tutti, ed è dunque paradossale la posizione di chi sostiene la *non esistenza* degli ebrei, o dei palestinesi, o di chiunque altro.

Qualche tempo fa Uriel, sul suo blog, ha scritto un post dova paragonava l'identità palestinese all'identità padana, negandola agli uni e agli altri, in base a considerazioni di tipo "etnico".

Personalmente trovo il concetto stesso di "etnia" sia fallace e impreciso quasi quanto quello di "razza".

L'etnia "italica" esiste ancora meno di quanto esista l'etnia padana. Nulla in comune tra un sardo, un marchigiano, un lombardo, a parte la lingua italiana nata - come lingua di massa - non con Dante bensì con la televisione, e quindi posteriore all'unità d'Italia.

Se dovessimo accordare diritti di nazionalità in base a considerazioni di tipo "etnico", allora - a mio parere - i padani sarebbero titolari di questo diritto assai più degli italiani, ma l'etnia, qualunque cosa significhi, e la nazionalità o l'aspirazione alla sovranità non coincidono necessariamente.

A fare un popolo, secondo me, è - invece, o anche - la sua storia.

I palestinesi iniziano ad avere una identità "palestinese" insieme ad Israele, perché pur non avendo alcuna differenza "etnica" con i loro vicini arabi, la storia li inchioda ad una identità specifica, loro malgrado.

Io in realtà credo che il riconoscimento di questa identità storica, e l'aspirazione "nazionale" dei palestinesi possa essere un motore per la pace assai potente, e che l'enfasi sull'identità araba e mussulmana, al contrario, abbiano allontanato e allontani i palestinesi dalla sovranità e quindi dalla pace, che può fondarsi solo sul riconoscimento di una identità propria e non già sulla negazione di quella altrui.

Quanto agli ebrei - e basta conoscerne qualcuno per saperlo - non sono una etnia.

Israele è - forse - l'esperimento di "melting pot" finora più riuscito al mondo. La rinuncia alla lingua madre degli immigrati non è a favore di una lingua "predominante", come sarebbe stato se si fosse scelto l'yiddish come lingua comune, ma a favore di una lingua antica, che appartiene per definizione a tutti pur non appartenendo storicamente a nessuno. Diversamente dall'inglese, l'ebraico non è la lingua franca dei padroni, dei più forti.

La legge del ritorno di Israele non è fondata su una identità religiosa, ma non è fondata neppure su una identità etnica.

Israele è un paese di profughi, più che di immigrati.

Chiunque abbia letto Jean Amery ha perfettamente chiaro cosa significhi l'essere ebreo come condizione, e ha perfettamente chiaro cosa significhi l'essere ebreo senza consapevolezza di se', e della propria storia.

Purtroppo Jean Amery polverizza, con la sua storia, il mito dell'assimilazione come "cura" dall'ebraismo, mito purtroppo tutt'ora in voga.

Il suo caso dimostra come l'essere ebrei senza averne coscienza possa significare la perdita totale del senso di se', e come conseguenza la morte. E' pericolosissimo, essere ebrei facendo finta di non esserlo.

Un ebreo tedesco assimilato, e senza coscienza di se', usciva dall'inferno senza più identità. Senza "heimat". Non esisteva.

Lui ha rinunciato al suo nome tedesco e ne ha assunto uno francese. E poi è morto suicida.

Alla faccia di chi attribuisce alla sola identità religiosa, razziale, o etnica diritto di cittadinanza. Israele non è riuscito a salvare Jean Amery, ma sono certa che esiste anche per lui.

Io chiedo a chi nega agli ebrei altra identità che quella religiosa, e a chi nega conseguentemente agli ebrei il diritto alla sovranità, dopo 2000 anni di pogrom e ghetti, dopo che l'assimilazione ebraica post napoleonica lungi dal mostrarsi risolutiva ha dovuto fare i conti con una ideologia che non lasciava scampo non a chi "si professava" ebreo, ma a chi semplicemente lo era se pure alla lontana, quali garanzie davano - o diano oggi - "le genti" di protezione o di accettazione agli ebrei.

Perché gli ebrei avrebbero dovuto credere che con il nazismo, anche l'odio per gli ebrei fosse finito?
Con quali basi, secondo quale filosofia si poteva credere che l'odio antiebraico fosse finalmente cessato? Una catarsi post olocausto? Una presa di coscienza dopo 2000 anni?

Con quale diritto e soprattutto con quali argomenti, gli "antisionisti" possono affermare che la scelta degli ebrei di avere una sovranità sia nata in base a ubbie nazionalistiche e di volontà di dominio di altri popoli e non - invece - in base a una semplice spinta di necessità, quella che da sempre costringe masse di persone a fuggire, spostarsi, e combattere ?

martedì 3 luglio 2007

corriere della lia

Voci per ora da confermare insinuano che il noto bloggher Miguel Martinez apprezzerebbe l'Islam come tassello della prossima ventura rivolta antimperialista, e non già - come si pensava in un primo momento - per la comoda funzione del velo velo islamico come copertura delle piccole imperfezioni femminili, prime rughe, couperose, occhi struccati, eccetera.
La notizia ci lascia perplessi, come è possibile che l'uomo - pur così impegnato a fianco dei popoli oppressi - abbia abbandonato con tanta crudeltà le povere casalinghe bruttine della mezzaluna?

lunedì 2 luglio 2007

parabole semantiche



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