Primo Levi - La chiave a stella
Il rapporto dell'uomo con il lavoro è stato cantato da Primo Levi - chimico ancor prima che scrittore - e legato al suo mestiere che gli regalava quello speciale e umanissimo contatto con la mater materia, ne La chiave a stella, per bocca del montatore di tralicci Faussone.
Il far bene il mestiere, la ricerca dell'eccellenza come fonte di felicità prima e al di là delle gratificazioni dell'ego, del successo.
Roberto De Rubis era tecnico delle luci in quella grande e specialissima macchina di professionalità collettive che è il teatro, e gli attori, i registi e i tecnici che hanno lavorato con lui hanno voluto ricordarlo il 28 maggio 2006, giorno in cui avrebbe dovuto compiere 47 anni, al Teatro dei Servi. Lo conoscevo e - come tutti quelli che erano venuti in contatto con lui - mi piaceva, e molto. Mi avevano detto che era bravo e stimato, nel suo lavoro, ma sentirlo raccontare dalle persone che avevano collaborato per tanti anni con lui - smarrite professionalmente oltre che affettivamente per la sua scomparsa - è stato non solo un arricchimento della sua immagine, ma anche e soprattutto un'illuminazione sul rapporto dell'essere umano con il lavoro, troppo spesso fonte di noia, frustazione e routine. De Rubis non conosceva la ben nota frase "dotto' un se po' fà", per lui costruire luminosamente una scena con pochi mezzi era una sfida: fare un disegno luci con 10 pinze e null'altro, ritrovarsi in tourneè con il service luci che non arriva e inventare un proiettore con un cono di cartone, neon, carta stagnola e gelatina. Oltre a inventare soluzioni tecnologiche di ogni tipo e per ogni esigenza, spade e denti da vampiro luminosi, De Rubis era capace di dare corpo - con creatività e passione - alle intenzioni sentimentali dei registi, spesso - come ricordano con autoironia alcuni di loro - tanto elevate quanto vaghe. De Rubis "risolveva problemi" raccontano gli attori. Una specie di colonna solida ed invisibile, preziosissima a legare dietro le quinte quel tessuto complesso di professionalità in cui ognuno spesso tende a lavorare per se' stesso prima che per l'insieme.
Ritratto di Massimo Jatosti
martedì 30 maggio 2006
amare il proprio lavoro
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
6 commenti:
quanto sono d'accordo con Levi... e soprattutto quanto sarò infelice SIGH!!!
Non ci sono dubbi sull'affermazione di Levi... ma ricordiamo anche che il teatro è un'arte particolarissima: vive fondamentalmente della testimonianza, di colui che l'ha visto, l'ha vissuto e lo ricorda... per questo nello spettacolo conta molto il riconoscimento. Il teatro come diceva Peter Brook è qualcuno che agisce e qualcuno che guarda, se manca uno di questi due elementi non si può parlare di teatro. Quindi più gente ha visto, più la tua poetica dilaga...più qualcuno potrà raccontarla... Sfortunatamente il teatro non è una poesia che si può tenere nel cassetto, nè un quadro che si può appendere su una parete...
x filomeno:
perchè sarai infelice? non ho capito... :-)
x anonimo:
mah, ti dirò che a me non ha mai convinto più di tanto neppure la poesia - o la famosa musica nel cassetto...
Certo, il teatro *vuole* il pubblico, assolutamente. Volevo solo enfatizzare la coralità del lavoro teatrale, in cui l'attore, i tecnici, i registi sono una parte dell'insieme. Il migliore teatro non è quello che enfatizza la personalità o il lavoro di uno ma che orchestra le professionalità di tutti (per me, almeno)
http://bishma.splinder.com/post/8247725
sufficiente come risposta? :-(
relativamente... :-)
E' bellissimo questo concetto di Primo Levi che non conoscevo. Grazie.
[Ste]
Posta un commento